mercoledì 30 dicembre 2009
giovedì 24 dicembre 2009
Capo Sant'Elia: scavi per recupero Tempio di Astarte ericina
Capo Sant'Elia: scavi per recupero Tempio di Astarte ericina
Melina Luesu
martedì, 25 ottobre 2005 Sardegna Oggi
Fra un mese inizieranno i lavori di recupero e scavo archeologico del capo di sant'Elia a Cagliari. L'iniziativa – illustrata stamane in conferenza stampa – è stata finanziata per intero dal Comune del capoluogo e vuole non solo restituire la zona ai cittadini, ma permettere che vengano alla luce numerosi reperti, di cui si ha notizia. Fino ad oggi, sottolinea l'archeologa Simonetta Angiolillo, non è stata effettuata nessuna indagine archeologica. Degno di attenzione il ritrovamento di alcuni resti che fanno presupporre la presenza di un Tempio dedicato alla Dea Astarte ericina, risalente al III secolo a.c..
CAGLIARI - Ancora un mese e finalmente verranno avviati i lavori di scavo archeologico nell'area di Capo Sant'Elia a Cagliari. Un intervento che si snoda fra “il rilancio della zona” ed il “recupero dei resti” del Tempio dedicato ad Astarte ericina, risalente al III secolo a.c..
Scalpitano gli archeologi bramosi “di offrire un contributo di conoscenza alla cittadinanza” glossa la Prof.ssa Simonetta Angiolillo , responsabile dei lavori insieme al dr. Alfonso Stiglitz. “Capo Sant'Elia” continua l'archeologa “non è mai stata scavata, sebbene ci siano notizie di alcuni ritrovamenti”. Nel 1870 , infatti, Filippo Nissardi trovò un iscrizione su una pietra, dedicata alla dea Astare ericina, nel “residuo di un muro che trovasi in cima al Capo Sant'Elia in vicinanza alla torre dello stesso nome” scriveva.
Iscrizione risalente al periodo fenicio-punico, è considerata come voto privato alla Dea, il che fa presupporre la presenza di un Tempio a lei dedicato. Sono stati segnalati altri rinvenimenti, come un pezzo di decorazione architettonica, tracce di un mosaico, di un bronzetto risalente all'età Romana. “Ci aspettiamo” prosegue la Prof.ssa di “trovare strutture e materiali in buone condizioni, grazie anche alla assenza di attività edilizia che avrebbe potuto deturpare la zona”. Il cantiere sarà aperto nello spazio circostante la Torre Pisana, con particolare riguardo ai ruderi della Chiesetta di San'Elia, ai resti murari e alle due cisterne. Sarà eseguita la pulizia della zona soggetta allo scavo.
Si tratta del primo cantiere archeologico per la cui realizzazione è stato di fondamentale importanza il finanziamento dell'amministrazione comunale, 75 mila euro , la disponibilità della Marina Militare – la zona è di sua proprietà – e dal Dipartimento di scienze archeologiche e storico artistiche dell'Università di Cagliari – che curerà gli scavi. L'indagine sarà eseguita attraverso il sistema della Concessione, previsto dal Codice dei beni culturali, avviato su iniziativa della Soprintendenza archeologica per le province di Cagliari ed Oristano.
“Un intervento” - concordano il sindaco Emilio Floris e l'assessore comunale alla Cultura Giorgio Pellegrini presenti alla conferenza stampa di presentazione di inizio lavori - “come nuova proiezione della città, con un sito interessante culturalmente e da un punto di vista naturalistico”. Ai lavori parteciperanno, oltre a due esperti, un assistente di cantiere e quattro operai, parteciperanno anche una sessantina di studenti del Dipartimento.
Melina Luesu
martedì, 25 ottobre 2005 Sardegna Oggi
Fra un mese inizieranno i lavori di recupero e scavo archeologico del capo di sant'Elia a Cagliari. L'iniziativa – illustrata stamane in conferenza stampa – è stata finanziata per intero dal Comune del capoluogo e vuole non solo restituire la zona ai cittadini, ma permettere che vengano alla luce numerosi reperti, di cui si ha notizia. Fino ad oggi, sottolinea l'archeologa Simonetta Angiolillo, non è stata effettuata nessuna indagine archeologica. Degno di attenzione il ritrovamento di alcuni resti che fanno presupporre la presenza di un Tempio dedicato alla Dea Astarte ericina, risalente al III secolo a.c..
CAGLIARI - Ancora un mese e finalmente verranno avviati i lavori di scavo archeologico nell'area di Capo Sant'Elia a Cagliari. Un intervento che si snoda fra “il rilancio della zona” ed il “recupero dei resti” del Tempio dedicato ad Astarte ericina, risalente al III secolo a.c..
Scalpitano gli archeologi bramosi “di offrire un contributo di conoscenza alla cittadinanza” glossa la Prof.ssa Simonetta Angiolillo , responsabile dei lavori insieme al dr. Alfonso Stiglitz. “Capo Sant'Elia” continua l'archeologa “non è mai stata scavata, sebbene ci siano notizie di alcuni ritrovamenti”. Nel 1870 , infatti, Filippo Nissardi trovò un iscrizione su una pietra, dedicata alla dea Astare ericina, nel “residuo di un muro che trovasi in cima al Capo Sant'Elia in vicinanza alla torre dello stesso nome” scriveva.
Iscrizione risalente al periodo fenicio-punico, è considerata come voto privato alla Dea, il che fa presupporre la presenza di un Tempio a lei dedicato. Sono stati segnalati altri rinvenimenti, come un pezzo di decorazione architettonica, tracce di un mosaico, di un bronzetto risalente all'età Romana. “Ci aspettiamo” prosegue la Prof.ssa di “trovare strutture e materiali in buone condizioni, grazie anche alla assenza di attività edilizia che avrebbe potuto deturpare la zona”. Il cantiere sarà aperto nello spazio circostante la Torre Pisana, con particolare riguardo ai ruderi della Chiesetta di San'Elia, ai resti murari e alle due cisterne. Sarà eseguita la pulizia della zona soggetta allo scavo.
Si tratta del primo cantiere archeologico per la cui realizzazione è stato di fondamentale importanza il finanziamento dell'amministrazione comunale, 75 mila euro , la disponibilità della Marina Militare – la zona è di sua proprietà – e dal Dipartimento di scienze archeologiche e storico artistiche dell'Università di Cagliari – che curerà gli scavi. L'indagine sarà eseguita attraverso il sistema della Concessione, previsto dal Codice dei beni culturali, avviato su iniziativa della Soprintendenza archeologica per le province di Cagliari ed Oristano.
“Un intervento” - concordano il sindaco Emilio Floris e l'assessore comunale alla Cultura Giorgio Pellegrini presenti alla conferenza stampa di presentazione di inizio lavori - “come nuova proiezione della città, con un sito interessante culturalmente e da un punto di vista naturalistico”. Ai lavori parteciperanno, oltre a due esperti, un assistente di cantiere e quattro operai, parteciperanno anche una sessantina di studenti del Dipartimento.
mercoledì 23 dicembre 2009
sabato 19 dicembre 2009
Quando un vaso greco racconta le donne
La Repubblica 19.12.09
Un viaggio al femminile nelle ceramiche esposte a Vicenza Tra dedizione alla casa, cura dei figli e lavori artigianali
Quando un vaso greco racconta le donne
di Giuseppe Della Fina
VICENZA Intorno al mistero di una figura femminile effigiata su un vaso attribuito al Pittore di Leningrado e databile intorno al 470 a. C. ruota la mostra «Le ore della donna. Storie e immagini nella collezione di ceramiche attiche e magnogreche di Intesa Sanpaolo» allestita a Palazzo Leoni Montanari (sino all´11 aprile 2010: la rassegna è dedicata a Fatima Terzo, che valorizzò questa collezione e che è scomparsa nel maggio scorso). Sul vaso - una hydria, destinata a contenere acqua - è dipinta la bottega di un ceramista: tre artigiani sono al lavoro e la loro bravura è riconosciuta dalla dea Atena e da due Nikai che li incoronano: una raffigurazione rara, interessante, ma negli schemi. Modelli che saltano quando notiamo che, isolata, in disparte, una giovane donna, seduta su uno sgabello di legno, sta lavorando nella stessa officina ed è intenta a dipingere un vaso: con la mano sinistra avvicina a sé un cratere di notevoli dimensioni e con la destra tiene un pennello. Si tratta di una persona libera che indossa un chitone e un himation. Il pittore del vaso è riuscito a rendere bene la concentrazione della fanciulla, l´orgoglio per il lavoro che sta svolgendo e, allo stesso tempo, la naturalezza della sua azione. Nella società greca di epoca classica, la donna svolgeva la sua attività e, in fondo, trascorreva la propria vita prevalentemente all´interno della casa: chi è la figura femminile intenta a lavorare in una bottega artigiana?
Altre donne fuori dagli schemi sono raffigurate su un vaso diverso, ma sempre attico a figure rosse e di poco più recente. Si tratta di un cratere a colonnette dove sono dipinte tre cortigiane: una di loro ha un laccio stretto intorno alla gamba che è stato interpretato come un amuleto contraccettivo. Un´altra ha in mano uno stivaletto che può rappresentare un´allusione erotica. Va rammentato che il vaso in questione, per la sua forma, rinvia al simposio ovvero a un contesto prettamente maschile aperto eventualmente solo alle cortigiane.
Non mancano, nella mostra, nemmeno Amazzoni e Menadi, altre figure con spiccati caratteri d´indipendenza. Nella maggioranza dei vasi è rappresentata una donna più legata agli schemi della società del tempo, ma la curatrice dell´esposizione, Federica Giacobello, ha voluto restituirci una realtà del mondo femminile greco più articolata e contraddittoria di quella che pigramente viene di solito riproposta. E prima di lasciare la mostra, torniamo a osservare la giovane donna intenta a dipingere: vuole dirci qualcosa.
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nota alla foto: Immagini di donne con colombe ritrovate a Micene
Quando un vaso greco racconta le donne
di Giuseppe Della Fina
VICENZA Intorno al mistero di una figura femminile effigiata su un vaso attribuito al Pittore di Leningrado e databile intorno al 470 a. C. ruota la mostra «Le ore della donna. Storie e immagini nella collezione di ceramiche attiche e magnogreche di Intesa Sanpaolo» allestita a Palazzo Leoni Montanari (sino all´11 aprile 2010: la rassegna è dedicata a Fatima Terzo, che valorizzò questa collezione e che è scomparsa nel maggio scorso). Sul vaso - una hydria, destinata a contenere acqua - è dipinta la bottega di un ceramista: tre artigiani sono al lavoro e la loro bravura è riconosciuta dalla dea Atena e da due Nikai che li incoronano: una raffigurazione rara, interessante, ma negli schemi. Modelli che saltano quando notiamo che, isolata, in disparte, una giovane donna, seduta su uno sgabello di legno, sta lavorando nella stessa officina ed è intenta a dipingere un vaso: con la mano sinistra avvicina a sé un cratere di notevoli dimensioni e con la destra tiene un pennello. Si tratta di una persona libera che indossa un chitone e un himation. Il pittore del vaso è riuscito a rendere bene la concentrazione della fanciulla, l´orgoglio per il lavoro che sta svolgendo e, allo stesso tempo, la naturalezza della sua azione. Nella società greca di epoca classica, la donna svolgeva la sua attività e, in fondo, trascorreva la propria vita prevalentemente all´interno della casa: chi è la figura femminile intenta a lavorare in una bottega artigiana?
Altre donne fuori dagli schemi sono raffigurate su un vaso diverso, ma sempre attico a figure rosse e di poco più recente. Si tratta di un cratere a colonnette dove sono dipinte tre cortigiane: una di loro ha un laccio stretto intorno alla gamba che è stato interpretato come un amuleto contraccettivo. Un´altra ha in mano uno stivaletto che può rappresentare un´allusione erotica. Va rammentato che il vaso in questione, per la sua forma, rinvia al simposio ovvero a un contesto prettamente maschile aperto eventualmente solo alle cortigiane.
Non mancano, nella mostra, nemmeno Amazzoni e Menadi, altre figure con spiccati caratteri d´indipendenza. Nella maggioranza dei vasi è rappresentata una donna più legata agli schemi della società del tempo, ma la curatrice dell´esposizione, Federica Giacobello, ha voluto restituirci una realtà del mondo femminile greco più articolata e contraddittoria di quella che pigramente viene di solito riproposta. E prima di lasciare la mostra, torniamo a osservare la giovane donna intenta a dipingere: vuole dirci qualcosa.
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nota alla foto: Immagini di donne con colombe ritrovate a Micene
giovedì 17 dicembre 2009
domenica 13 dicembre 2009
sabato 12 dicembre 2009
mercoledì 9 dicembre 2009
martedì 8 dicembre 2009
Grande è la Diana degli Efesini
Grande è la Diana degli Efesini
L'antica città greca di Efeso, in Asia Minore (a questo proposito dobbiamo dichiararci grati alla nostra archeologia austriaca per l'esplorazione delle sue rovine) era particolarmente celebrata nell'antichità per il magnifico tempio dedicato ad Artemide (Diana). Gli invasori ionici, forse nell'ottavo secolo avanti Cristo, conquistarono la città, che da tempi remoti era abitata da popoli di razza asiatica, e quivi trovarono il culto di un antica dea madre, il cui nome era probabilmente Oupis e che fu da loro identificata con Artemide, divinità della loro patria di provenienza. Gli scavi hanno dimostrato che, nel corso dei secoli, parecchi templi furono eretti nello stesso luogo in onore della dea. Il quarto di questi templi è quello che fu distrutto dal fuoco appiccato dal folle Erostrato, nel 356, la notte stessa in cui nasceva Alessandro Magno. Il tempio fu ricostruito, più bello del precedente. La metropoli commerciale di Efeso, con il suo affollarsi di sacerdoti, maghi e pellegrini, con le sue botteghe, ove erano posti in vendita amuleti, ricordi ed ex-voto, potrebbe essere paragonata alla attuale Lourdes.
La dea greca Artemide (di cui il tempio a Corfù a lei dedicato sembra essere il primo edificio sacro costruito in pietra) inizialmente era adorata come dea madre, identificata in questo dalle sue numerose mammelle (anche se per alcuni studiosi potrebbe trattarsi di uova o comunque di contenitori formati da vesciche di animale). Presso i romani Artemide era identificata in Diana, una dea dei boschi ma anche dea della fertilità, e una copia della Artemide di Efeso era pure situata nel santuario sull'Aventino, a Roma.
Verso il 54 d.C. l'apostolo Paolo passò diversi anni ad Efeso, ove predicò compiendo dei miracoli, trovando un largo seguito tra la popolazione. Perseguitato ed accusato dagli Ebrei, si staccò da questi, fondando una comunità cristiana indipendente. In seguito al diffondersi della sua dottrina, vi fu un calo del commercio degli orafi, che solevano fabbricare ricordi del luogo sacro (figurine di Artemide e modellini del tempio) per i fedeli e i pellegrini, che venivano da tutte le parti del mondo. Paolo era troppo rigido per tollerare che l'antica divinità sopravvivesse sotto diverso nome, per ribattezzarla come avevano fatto i conquistatori ionii con la dea Oupis, per cui i devoti artigiani e artisti della città cominciarono a sentirsi preoccupati per la sorte della loro dea e anche per quella dei loro guadagni. Si ribellarono e, al grido senza fine ripetuto, di «Grande è la Diana degli Efesini», sciamarono lungo la via principale, detta "Arcadiana", fino al teatro, dove il loro capo, Demetrio, pronunciò un discorso infuocato, contro gli Ebrei e contro Paolo. Le autorità riuscirono con difficoltà a sedare il tumulto con l'assicurazione che la maestà della dea era intoccabile e fuori della portata di qualsiasi attacco (Atti, XIX). La chiesa, fondata da Paolo a Efeso, non gli rimase fedele a lungo. Cadde sotto l'influenza di un uomo chiamato Giovanni, la cui personalità è stata un serio problema per gli studiosi. Potrebbe trattarsi dell'autore dell'Apocalisse, che abbonda in invettive contro l'apostolo Paolo. La tradizione lo identifica con l'apostolo Giovanni, al quale si attribuisce il quarto Vangelo. Secondo questo libro, quando Gesù era sulla croce gridò al discepolo favorito, accennando a Maria: "Ecco tua madre!", e da quel momento Giovanni prese Maria con sé. Quindi, quando Giovanni andò a Efeso, Maria lo accompagnava. Di conseguenza, a Efeso, accanto alla chiesa dell'apostolo, fu eretta la prima basilica in onore della dea madre dei cristiani. La sua esistenza è attestata fin dal quarto secolo. E allora la città ebbe di nuovo la sua magnifica dea e, salvo il nome, scarsi furono i mutamenti. Anche gli orefici ripresero il loro lavoro, consistente nel fabbricare modelli del tempio e immagini della dea per i nuovi pellegrini. Però la funzione di Artemide, espressa dall'attributo Kourotrophos (che alleva i figli) fu assunta da Sant'Artemidoro, protettore delle donne in travaglio.
Le numerose coincidenze delle feste cristiane con quelle pagane evidenziano il processo di assorbimento compiuto dalla Chiesa nei confronti dei suoi rivali (certamente vinti ma ancora pericolosi).
Poi venne la conquista della città da parte dell'Islam, e, infine, la rovina e l'abbandono, dovuti al fatto che il fiume, lungo il quale sorgeva, fu soffocato dalle sabbie. Ma nemmeno allora la magnifica dea di Efeso abbandonò le sue pretese. Ai nostri giorni essa è apparsa in una città della Vestfalia, come una santa vergine, ad una devota fanciulla tedesca, Katharina Emmerich. Essa le ha descritto il viaggio ad Efeso, l'arredamento della casa in cui era vissuta ed era morta, la forma del suo letto, e via dicendo. Sia la casa che il letto sono stati effettivamente ritrovati, esattamente quali la vergine li aveva descritti, e ora sono nuovamente meta di pellegrinaggi di fedeli.
Newton Compton editori in:
S. Freud, Totem e Tabù
Roma, 1970 IX edizione gennaio 1985
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nota: nel disegno, L'Artemide di Efeso
L'antica città greca di Efeso, in Asia Minore (a questo proposito dobbiamo dichiararci grati alla nostra archeologia austriaca per l'esplorazione delle sue rovine) era particolarmente celebrata nell'antichità per il magnifico tempio dedicato ad Artemide (Diana). Gli invasori ionici, forse nell'ottavo secolo avanti Cristo, conquistarono la città, che da tempi remoti era abitata da popoli di razza asiatica, e quivi trovarono il culto di un antica dea madre, il cui nome era probabilmente Oupis e che fu da loro identificata con Artemide, divinità della loro patria di provenienza. Gli scavi hanno dimostrato che, nel corso dei secoli, parecchi templi furono eretti nello stesso luogo in onore della dea. Il quarto di questi templi è quello che fu distrutto dal fuoco appiccato dal folle Erostrato, nel 356, la notte stessa in cui nasceva Alessandro Magno. Il tempio fu ricostruito, più bello del precedente. La metropoli commerciale di Efeso, con il suo affollarsi di sacerdoti, maghi e pellegrini, con le sue botteghe, ove erano posti in vendita amuleti, ricordi ed ex-voto, potrebbe essere paragonata alla attuale Lourdes.
La dea greca Artemide (di cui il tempio a Corfù a lei dedicato sembra essere il primo edificio sacro costruito in pietra) inizialmente era adorata come dea madre, identificata in questo dalle sue numerose mammelle (anche se per alcuni studiosi potrebbe trattarsi di uova o comunque di contenitori formati da vesciche di animale). Presso i romani Artemide era identificata in Diana, una dea dei boschi ma anche dea della fertilità, e una copia della Artemide di Efeso era pure situata nel santuario sull'Aventino, a Roma.
Verso il 54 d.C. l'apostolo Paolo passò diversi anni ad Efeso, ove predicò compiendo dei miracoli, trovando un largo seguito tra la popolazione. Perseguitato ed accusato dagli Ebrei, si staccò da questi, fondando una comunità cristiana indipendente. In seguito al diffondersi della sua dottrina, vi fu un calo del commercio degli orafi, che solevano fabbricare ricordi del luogo sacro (figurine di Artemide e modellini del tempio) per i fedeli e i pellegrini, che venivano da tutte le parti del mondo. Paolo era troppo rigido per tollerare che l'antica divinità sopravvivesse sotto diverso nome, per ribattezzarla come avevano fatto i conquistatori ionii con la dea Oupis, per cui i devoti artigiani e artisti della città cominciarono a sentirsi preoccupati per la sorte della loro dea e anche per quella dei loro guadagni. Si ribellarono e, al grido senza fine ripetuto, di «Grande è la Diana degli Efesini», sciamarono lungo la via principale, detta "Arcadiana", fino al teatro, dove il loro capo, Demetrio, pronunciò un discorso infuocato, contro gli Ebrei e contro Paolo. Le autorità riuscirono con difficoltà a sedare il tumulto con l'assicurazione che la maestà della dea era intoccabile e fuori della portata di qualsiasi attacco (Atti, XIX). La chiesa, fondata da Paolo a Efeso, non gli rimase fedele a lungo. Cadde sotto l'influenza di un uomo chiamato Giovanni, la cui personalità è stata un serio problema per gli studiosi. Potrebbe trattarsi dell'autore dell'Apocalisse, che abbonda in invettive contro l'apostolo Paolo. La tradizione lo identifica con l'apostolo Giovanni, al quale si attribuisce il quarto Vangelo. Secondo questo libro, quando Gesù era sulla croce gridò al discepolo favorito, accennando a Maria: "Ecco tua madre!", e da quel momento Giovanni prese Maria con sé. Quindi, quando Giovanni andò a Efeso, Maria lo accompagnava. Di conseguenza, a Efeso, accanto alla chiesa dell'apostolo, fu eretta la prima basilica in onore della dea madre dei cristiani. La sua esistenza è attestata fin dal quarto secolo. E allora la città ebbe di nuovo la sua magnifica dea e, salvo il nome, scarsi furono i mutamenti. Anche gli orefici ripresero il loro lavoro, consistente nel fabbricare modelli del tempio e immagini della dea per i nuovi pellegrini. Però la funzione di Artemide, espressa dall'attributo Kourotrophos (che alleva i figli) fu assunta da Sant'Artemidoro, protettore delle donne in travaglio.
Le numerose coincidenze delle feste cristiane con quelle pagane evidenziano il processo di assorbimento compiuto dalla Chiesa nei confronti dei suoi rivali (certamente vinti ma ancora pericolosi).
Poi venne la conquista della città da parte dell'Islam, e, infine, la rovina e l'abbandono, dovuti al fatto che il fiume, lungo il quale sorgeva, fu soffocato dalle sabbie. Ma nemmeno allora la magnifica dea di Efeso abbandonò le sue pretese. Ai nostri giorni essa è apparsa in una città della Vestfalia, come una santa vergine, ad una devota fanciulla tedesca, Katharina Emmerich. Essa le ha descritto il viaggio ad Efeso, l'arredamento della casa in cui era vissuta ed era morta, la forma del suo letto, e via dicendo. Sia la casa che il letto sono stati effettivamente ritrovati, esattamente quali la vergine li aveva descritti, e ora sono nuovamente meta di pellegrinaggi di fedeli.
Newton Compton editori in:
S. Freud, Totem e Tabù
Roma, 1970 IX edizione gennaio 1985
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nota: nel disegno, L'Artemide di Efeso
Serapide e la Diana degli Efesini
Serapide e la Diana degli Efesini
J. W. Goethe
GRANDE È LA DIANA DEGLI EFESINI
Atti degli apostoli 19, 28
A Efeso un orefice, seduto
nella sua bottega, batteva
nel modo migliore, senza un attimo
di sosta, con tutta l'arte che aveva.
Da ragazzo e giovane si inginocchiava un tempo
davanti al trono della dea, nel tempio.
E il cinto della dea sotto il petto
con la lima, fedelmente, aveva rifatto,
il cinto dove hanno ricetto tante
bestie, seguendo l'ordine di suo padre;
e portava il suo zelo d'artista
in azione devota per tutta la vita.
E d'improvviso vociare lui sente
dalla strada un turbine di gente:
ci sarebbe un dio nel cervello, proprio
lì, dietro la sciocca fronte dell'uomo,
più sovrano dell'essere dove leggiamo
quanto il potere divino sia vasto.
Il vecchio artista ascolta, non altro,
manda il suo ragazzo al mercato,
cervi e animali lima senza fine
per adornare le ginocchia divine,
e spera che la sorte lo possa aiutare
ad esprimerla in degne sembianze.
Ma se altri la pensa diversamente,
si regoli pure a suo piacere;
solo al mestiere non faccia torto,
se no finirà male, nello scorno.
J. W. Goethe
GRANDE È LA DIANA DEGLI EFESINI
Atti degli apostoli 19, 28
A Efeso un orefice, seduto
nella sua bottega, batteva
nel modo migliore, senza un attimo
di sosta, con tutta l'arte che aveva.
Da ragazzo e giovane si inginocchiava un tempo
davanti al trono della dea, nel tempio.
E il cinto della dea sotto il petto
con la lima, fedelmente, aveva rifatto,
il cinto dove hanno ricetto tante
bestie, seguendo l'ordine di suo padre;
e portava il suo zelo d'artista
in azione devota per tutta la vita.
E d'improvviso vociare lui sente
dalla strada un turbine di gente:
ci sarebbe un dio nel cervello, proprio
lì, dietro la sciocca fronte dell'uomo,
più sovrano dell'essere dove leggiamo
quanto il potere divino sia vasto.
Il vecchio artista ascolta, non altro,
manda il suo ragazzo al mercato,
cervi e animali lima senza fine
per adornare le ginocchia divine,
e spera che la sorte lo possa aiutare
ad esprimerla in degne sembianze.
Ma se altri la pensa diversamente,
si regoli pure a suo piacere;
solo al mestiere non faccia torto,
se no finirà male, nello scorno.
lunedì 7 dicembre 2009
Nel museo dei leoni di pietra l'anima della civiltà fenicia
Nel museo dei leoni di pietra l'anima della civiltà fenicia
Carlo Figari
L'Unione Sarda, 10/1/2006
Dopo più di trent'anni inaugurato ieri a S. Antioco e dedicato a Ferruccio Barreca.
Per gli archeologi è la più importante collezione di epoca punica oggi esistente.
Il pezzo più importante? Una coppa proveniente da Tiro, in Libano. Probabilmente faceva parte del corredo di bordo di una nave fenicia. Unica in Sardegna, datata settimo secolo avanti Cristo, all'occhio del profano dice poco o niente. Ma per l'esperto è un'autentica rarità. «Lo stile e la pasta sono inconfondibili: in Occidente non ne sono state trovato altre», dice l'archeologo Piero Bartoloni. Il giorno dell'inagurazione del museo di Sant'Antioco sprizza di soddisfazione. Ieri mattina il sogno di aprire al pubblico la ricca collezione si è trasformato in realtà. Ci sono voluti più di trent'anni dalla posa della prima pietra, una storia di disavventure finanziarie e di lentezze burocratiche che ne avevano fatto un simbolo in negativo dei beni culturali in Sardegna. Ma il discorso si dovrebbe allargare all'Italia, visto che sino al 1995 era di proprietà dello Stato e che Roma in quattro lustri non era stata in grado di realizzare il museo del Sulcis. Ma non è tutto. Per poterlo aprire, superando ulteriori intralci amministrativi, Comune e Soprintendenza si sono inventati un espediente tecnico: l'inagurazione di una mostra permanente. Altro non è che lo stesso museo, da oggi finalmente visitabile. «Il più bel museo fenicio punico del mondo», si entusiasma il sindaco Eusebio Baghino. Come conferma uno studioso di fama qual è Momo Zucca: «È vero, se parliamo di un museo specializzato non vedo una collezione più ricca e completa. Qui sono presenti reperti di altri periodi, dalla protostoria alla civiltà romana, ma in numero limitato. Il grosso rappresenta l'epoca fenicio punica con una collezione che non teme confronti. Neppure con i musei di Cartagine o di Mozia in Sicilia». Baghino rilancia con un'impennata d'orgoglio campanilista: «All'esposizione di Palazzo Grassi a Venezia, nel 1988, il trenta per cento dei reperti proveniva da Sant'Antioco e nel salone centrale della mostra c'erano i nostri due leoni di pietra. Oggi tutto questo è raccolto qui», dice ricordando che negli ultimi due anni i visitatori dell'area archeologica sono stati 25 mila. «Con il museo speriamo di richiamarne molti di più».
Il taglio del nastro non è stato la solita formalità. Questa volta la retorica dei discorsi ufficiali è stata superata dalla soddisfazione per avercela fatta. Piero Bartoloni, unico ordinario di archeologia fenicio punico in Sardegna (con cattedra a Sassari), ha cominciato a lavorare al museo sin dalle origini. Da quando l'indimenticato Ferruccio Barreca (a cui giustamente è intitolato) ebbe l'idea di creare un museo nello stesso luogo dove negli anni Sessanta-Settanta venivano alla luce i resti della più antica e più importante città fenicio-punica: il porto, le necropoli con decine di tombe, il tophet con centinaia di urne e stele funerarie, ruderi di templi, strade ed edifici civili. La terra restituiva una enorme quantità di oggetti di ogni genere: dai preziosi gioielli alla ceramica, dai mosaici tardo imperiali alle statue puniche e romane. «Oggi abbiamo la certezza che Sulky risale al settimo secolo avanti Cristo, più antica di Nora e di ogni altra colonia fenicia», sottolinea Bartoloni.
In quegli anni Barreca pretende che i reperti di Sant'Antioco, accatastati in magazzini, trovino la giusta collocazione "in loco" e non prendano la via dell'esilio al museo di Cagliari, come quasi sempre accadeva. Il progetto nasce nel 1970 e nel 1973 si comincia. Ma dopo il rustico iniziano i guai. Finiscono i soldi, non si trovano nuovi finanziamenti, cambiano le leggi per i sistemi di sicurezza. In breve il cantiere si ferma. Quando nel 1995 il museo passa alla Regione i lavori possono ripartire. Si concludono dieci anni dopo. «Nel marzo del 2005 - continua Bartoloni - il sindaco Baghino mi chiede di approntare l'allestimento con l'obiettivo di aprire quanto prima». Dieci mesi, un altro record questa volta positivo, e ieri eccoci qua con la cerimonia del nastro. Un piccolo miracolo a cui partecipano in tanti. Oltre a Bartoloni, c'è un altro archeologo a cui Sant'Antioco deve molto: il funzionario della Soprintendenza Paolo Bernardini che da vent'anni scava, studia e si danna nell'interminabile cantiere tra la necropoli, il tophet e il museo. Sono sue le principali scoperte. E ieri, schivo come sempre, si gode la festa. «Non è la mia», dice: «è quella di Sant'Antioco».
Alla cerimonia partecipano tutti. C'è il presidente della nuova Provincia Pierfranco Gaviano, c'è l'assessore ai Beni culturali Elisabetta Pilia: «II museo è aperto, ora la Regione deve fare qualcosa in più per la promozione e la comunicazione», dice: «Dobbiamo puntare sulla qualità e per questo dobbiamo lavorare sui sistemi di zona che raggruppano più musei comunali mettendo insieme servizi e professionalità». E ribadisce: «La Regione continuerà ad investire sui beni culturali, portando avanti l'accordo di programma con lo Stato».
Il museo accoglie i visitatori con un allestimento moderno e didascalico. All'ingresso una mappa gigante in rilievo mostra i diversi insediamenti con una selezione cronologica. Interessa sapere dove si trovano i resti punici oppure quelli romani? Basta premere un pulsante e la risposta arriva con una luce colorata. Il porto di Sulky è stato ricostruito fedelmente in scala: come una foto istantanea, un plastico mostra le navi ormeggiate ai moli, uno scafo in costruzione nel cantiere nautico, la vita quotidiana. Spiega Bartoloni: «È una riproduzione verosimile perché l'abbiamo realizzata basandoci sulle fonti storielle e archeologiche».
Il museo può contare su sedicimila reperti, la metà sono esposti nelle vetrine o in attesa di essere sistemati. Un posto d'onore spetta ai leoni di tufo vulcanico locale, scoperti nel 1983 nell'area del Cronicario da Paolo Bernardini e Carlo Tronchetti. Eleganti esempi dell'arte punica, sono ancora al centro del dibattito tra gli esperti. Bernardini, seguendo l'analisi stilistica, propone come datazione il sesto secolo, Bartoloni li riporta al 375 «quando Cartagine decise di fortificare tutte le sue colonie con possenti mura. Questi leoni, simili a quelli trovati a Tharros, erano collocati probabilmente davanti alla porta settentrionale della città. In epoca romana furono riutilizzati alla base della tribuna dell'anfiteatro. Sicuramente vennero scolpiti da maestranze cartaginesi con uno stile tipico a quelle popolazioni».
Carlo Figari
L'Unione Sarda, 10/1/2006
Dopo più di trent'anni inaugurato ieri a S. Antioco e dedicato a Ferruccio Barreca.
Per gli archeologi è la più importante collezione di epoca punica oggi esistente.
Il pezzo più importante? Una coppa proveniente da Tiro, in Libano. Probabilmente faceva parte del corredo di bordo di una nave fenicia. Unica in Sardegna, datata settimo secolo avanti Cristo, all'occhio del profano dice poco o niente. Ma per l'esperto è un'autentica rarità. «Lo stile e la pasta sono inconfondibili: in Occidente non ne sono state trovato altre», dice l'archeologo Piero Bartoloni. Il giorno dell'inagurazione del museo di Sant'Antioco sprizza di soddisfazione. Ieri mattina il sogno di aprire al pubblico la ricca collezione si è trasformato in realtà. Ci sono voluti più di trent'anni dalla posa della prima pietra, una storia di disavventure finanziarie e di lentezze burocratiche che ne avevano fatto un simbolo in negativo dei beni culturali in Sardegna. Ma il discorso si dovrebbe allargare all'Italia, visto che sino al 1995 era di proprietà dello Stato e che Roma in quattro lustri non era stata in grado di realizzare il museo del Sulcis. Ma non è tutto. Per poterlo aprire, superando ulteriori intralci amministrativi, Comune e Soprintendenza si sono inventati un espediente tecnico: l'inagurazione di una mostra permanente. Altro non è che lo stesso museo, da oggi finalmente visitabile. «Il più bel museo fenicio punico del mondo», si entusiasma il sindaco Eusebio Baghino. Come conferma uno studioso di fama qual è Momo Zucca: «È vero, se parliamo di un museo specializzato non vedo una collezione più ricca e completa. Qui sono presenti reperti di altri periodi, dalla protostoria alla civiltà romana, ma in numero limitato. Il grosso rappresenta l'epoca fenicio punica con una collezione che non teme confronti. Neppure con i musei di Cartagine o di Mozia in Sicilia». Baghino rilancia con un'impennata d'orgoglio campanilista: «All'esposizione di Palazzo Grassi a Venezia, nel 1988, il trenta per cento dei reperti proveniva da Sant'Antioco e nel salone centrale della mostra c'erano i nostri due leoni di pietra. Oggi tutto questo è raccolto qui», dice ricordando che negli ultimi due anni i visitatori dell'area archeologica sono stati 25 mila. «Con il museo speriamo di richiamarne molti di più».
Il taglio del nastro non è stato la solita formalità. Questa volta la retorica dei discorsi ufficiali è stata superata dalla soddisfazione per avercela fatta. Piero Bartoloni, unico ordinario di archeologia fenicio punico in Sardegna (con cattedra a Sassari), ha cominciato a lavorare al museo sin dalle origini. Da quando l'indimenticato Ferruccio Barreca (a cui giustamente è intitolato) ebbe l'idea di creare un museo nello stesso luogo dove negli anni Sessanta-Settanta venivano alla luce i resti della più antica e più importante città fenicio-punica: il porto, le necropoli con decine di tombe, il tophet con centinaia di urne e stele funerarie, ruderi di templi, strade ed edifici civili. La terra restituiva una enorme quantità di oggetti di ogni genere: dai preziosi gioielli alla ceramica, dai mosaici tardo imperiali alle statue puniche e romane. «Oggi abbiamo la certezza che Sulky risale al settimo secolo avanti Cristo, più antica di Nora e di ogni altra colonia fenicia», sottolinea Bartoloni.
In quegli anni Barreca pretende che i reperti di Sant'Antioco, accatastati in magazzini, trovino la giusta collocazione "in loco" e non prendano la via dell'esilio al museo di Cagliari, come quasi sempre accadeva. Il progetto nasce nel 1970 e nel 1973 si comincia. Ma dopo il rustico iniziano i guai. Finiscono i soldi, non si trovano nuovi finanziamenti, cambiano le leggi per i sistemi di sicurezza. In breve il cantiere si ferma. Quando nel 1995 il museo passa alla Regione i lavori possono ripartire. Si concludono dieci anni dopo. «Nel marzo del 2005 - continua Bartoloni - il sindaco Baghino mi chiede di approntare l'allestimento con l'obiettivo di aprire quanto prima». Dieci mesi, un altro record questa volta positivo, e ieri eccoci qua con la cerimonia del nastro. Un piccolo miracolo a cui partecipano in tanti. Oltre a Bartoloni, c'è un altro archeologo a cui Sant'Antioco deve molto: il funzionario della Soprintendenza Paolo Bernardini che da vent'anni scava, studia e si danna nell'interminabile cantiere tra la necropoli, il tophet e il museo. Sono sue le principali scoperte. E ieri, schivo come sempre, si gode la festa. «Non è la mia», dice: «è quella di Sant'Antioco».
Alla cerimonia partecipano tutti. C'è il presidente della nuova Provincia Pierfranco Gaviano, c'è l'assessore ai Beni culturali Elisabetta Pilia: «II museo è aperto, ora la Regione deve fare qualcosa in più per la promozione e la comunicazione», dice: «Dobbiamo puntare sulla qualità e per questo dobbiamo lavorare sui sistemi di zona che raggruppano più musei comunali mettendo insieme servizi e professionalità». E ribadisce: «La Regione continuerà ad investire sui beni culturali, portando avanti l'accordo di programma con lo Stato».
Il museo accoglie i visitatori con un allestimento moderno e didascalico. All'ingresso una mappa gigante in rilievo mostra i diversi insediamenti con una selezione cronologica. Interessa sapere dove si trovano i resti punici oppure quelli romani? Basta premere un pulsante e la risposta arriva con una luce colorata. Il porto di Sulky è stato ricostruito fedelmente in scala: come una foto istantanea, un plastico mostra le navi ormeggiate ai moli, uno scafo in costruzione nel cantiere nautico, la vita quotidiana. Spiega Bartoloni: «È una riproduzione verosimile perché l'abbiamo realizzata basandoci sulle fonti storielle e archeologiche».
Il museo può contare su sedicimila reperti, la metà sono esposti nelle vetrine o in attesa di essere sistemati. Un posto d'onore spetta ai leoni di tufo vulcanico locale, scoperti nel 1983 nell'area del Cronicario da Paolo Bernardini e Carlo Tronchetti. Eleganti esempi dell'arte punica, sono ancora al centro del dibattito tra gli esperti. Bernardini, seguendo l'analisi stilistica, propone come datazione il sesto secolo, Bartoloni li riporta al 375 «quando Cartagine decise di fortificare tutte le sue colonie con possenti mura. Questi leoni, simili a quelli trovati a Tharros, erano collocati probabilmente davanti alla porta settentrionale della città. In epoca romana furono riutilizzati alla base della tribuna dell'anfiteatro. Sicuramente vennero scolpiti da maestranze cartaginesi con uno stile tipico a quelle popolazioni».
Tiro e Sidone, due miti in porto
Tiro e Sidone, due miti in porto
Valerio M. Manfredi
Il Messaggero, 10/1/2006
Un gruppo di geologi francesi ha finalmente localizzato i lcggendari scali. Proprio sotto le moderne città libanesi
Archeologi francesi avrebbero scoperto gli antichi porti di Tiro e di Sidone. Se confermata, si tratterebbe di una scoperta senz'altro eccezionale. Da quei porti sono salpatele navi che hanno solcato tutto il Mediterraneo ma forse anche l'Atlantico e addirittura l'Oceano indiano. Come sempre le notizie di questo genere diffuse da agenzie di stampa sono molto sommarie e sempre incomplete anche perché arrivano comunque prima della pubblicazione dei dati di scavo in sede scientifica. Si suppone comunque che gli archeologi francesi abbiano diffuso la notizia sulla base di dati obiettivi.
Non dobbiamo immaginare nulla di spettacolare, semplicemente strutture subacquee che consentono di delineare l'area dei porti e, forse le loro adiacenze.
Sia Tiro che Sidone erano città fenicie, ossia comunità fondate da una popolazione di stirpe semitica originaria, forse della penisola del Sinai che si era stanziata nella stretta fascia di territorio fra il monte Libano e il mare. Alle spalle avevano i grandi imperi mesopotamici, a nord la catena del Tauro e l'Impero Ittita, a Sud Ovest l'Egitto dei Faraoni: soltanto a sud avevano dei vicini non troppo pericolosi: le tribù d'Israele, a loro affini per stirpe e lingua anche se molto diverse per le loro credenze in un Dio unico, tremendo e invisibile.
Attorniati da vicini tanto potenti, stretti fra le montagne e il mare avevano fatto come i nostri liguri; si erano rivolti al mare diventando straordinari commercianti e navigatori.
Non avevano, come diremmo oggi, una coscienza nazionale, ma solo cittadina. Insomma erano gli altri a chiamarli "Fenici": loro si chiamavano semplicemente con i nomi delle loro città, Tirii, Sidonii, etc. Erano stati i Greci a chiamarli "Fenici", una parola che significa "rossi", forse dal colore della loro pelle abbronzata dal sole, forse dal colore delle loro vele, o forse dal colore del loro prodotto più venduto e ricercato: la porpora.
Erano stati i primi ad inventare l'alfabeto, nella città di Byblos, nel nord, probabilmente per ragioni pratiche: il sistema dì scrittura ideografico, fosse cuneiforme come in Mesopotamia, fosse geroglifico come in Egitto era troppo complesso e macchinoso. Chi voleva impararlo doveva dedicarsi solo a quello. Con il nuovo sistema invece bastava conoscere poco più di venti segni per scrivere qualunque parola. Tiro era una città su un'isola, come Hong Kong e Manhattan ma aveva una città vecchia in terraferma, Sidone invece era tutta in terraferma. Dai loro porti erano partite le navi che avevano sfidato le acque infide di tutti i mari allora conosciuti e si erano anche avventurate nell'Oceano: le cosiddette Colonne d'Ercole non li avevano certo fermati e l'Ercole dei Greci non era altro che l'interpretazione ellenica di un dio fenicio, Melkart, che come Ercole era rappresentato vestito con una pelle di leone. Era stata Tiro a fondare il maggior numero di colonie lungo le rotte che portavano a Gibilterra. Fra tutte la più grande e gloriosa era stata Cartagine (Qart Adasht, "Città nuova") che a sua volta aveva fondato tante altre città. Anche Cadice in Spagna era stata fondata dai coloni di Tiro e così pure Algeri e Orano. Fra Cartagine e Tiro c'era sempre stato un rapporto molto stretto: quando Annibale, costretto a fuggire dalla sua patria arrivò a Tiro vi fu accolto come un eroe. A quel tempo Tiro aveva già subito una distruzione rovinosa per mano di Alessandro. La città infatti, confidando nella sua posizione su un isolotto roccioso a sette-ottocento metri dalla costa aveva opposto un rifiuto alla richiesta del condottiero macedone di entrare in città per offrire un sacrificio al suo antenato Ercole (ossia Melkart). Se voleva, gli fu risposto, poteva sacrificare nel tempio che si trovava nella città vecchia in terraferma. Alessandro rispose: "Voi parlate così perché ritenete di essere un'isola." Un discorso strano, come se il fatto di essere o non essere un'isola fosse un fatto opinabile. In effetti era così, era opinabile. Alessandro fece radere al suolo la città vecchia e buttò in mare le macerie creando un molo su cui fece avanzare le macchine da guerra. Tutto attorno alle mura che strapiombavano sul mare, fece costruire pontoni galleggianti su cui piazzò balliste e catapulte che martellavano le mura giorno e notte, senza tregua. Alla fine Tiro cadde e subì una devastazione spaventosa ma pochi mesi dopo già fervevano i lavori di ricostruzione.
Oggi, come aveva voluto Alessandro, Tiro è una penisola, perché il moto delle onde ha creato un istmo sabbioso che collega la vecchia rupe alla terraferma, proprio come è successo in Italia al monte Circeo e a Orbetello.
Anche Sidone ha subito una forte attività di insabbiamento da parte del mare e questo spiega l'importanza degli scavi che tentano di rimettere in luce il suo antico porto. Da quei fondali potrebbero emergere testimonianze straordinarie e forse anche qualche sorpresa. Una volta Thor Heyerdahl, il famoso navigatore del "Kon Tìki", mi disse di aver visto proprio a Sidone, se ricordo bene, in una tomba fenicia di recente scavata, un oggetto in ceramica che secondo lui rappresentava inequivocabilmente una pannocchia di mais e non come dicevano gli archeologi, una pigna. I chicchi della pannocchia infatti sono disposti su file ortogonali mentre le scaglie della pigna son disposte a quinconce. Se verificata, una simile osservazione sarebbe rivoluzionaria, visto che il mais è una pianta americana. Ancora si discute sull'autenticità della fantomatica "stele di Paraiba" descritta da viaggiatori dell'ottocento e copiata con la sua iscrizione fenicia ma mai ritrovata e per questo assai sospetta. Quella stele sarebbe stata scritta da marinai di Tiro partiti da Ezion-geber nel mar Rosso e approdati in Brasile dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza. Una delle tante leggende fiorite sulla straordinaria abilità di questo popolo di navigatori.
Valerio M. Manfredi
Il Messaggero, 10/1/2006
Un gruppo di geologi francesi ha finalmente localizzato i lcggendari scali. Proprio sotto le moderne città libanesi
Archeologi francesi avrebbero scoperto gli antichi porti di Tiro e di Sidone. Se confermata, si tratterebbe di una scoperta senz'altro eccezionale. Da quei porti sono salpatele navi che hanno solcato tutto il Mediterraneo ma forse anche l'Atlantico e addirittura l'Oceano indiano. Come sempre le notizie di questo genere diffuse da agenzie di stampa sono molto sommarie e sempre incomplete anche perché arrivano comunque prima della pubblicazione dei dati di scavo in sede scientifica. Si suppone comunque che gli archeologi francesi abbiano diffuso la notizia sulla base di dati obiettivi.
Non dobbiamo immaginare nulla di spettacolare, semplicemente strutture subacquee che consentono di delineare l'area dei porti e, forse le loro adiacenze.
Sia Tiro che Sidone erano città fenicie, ossia comunità fondate da una popolazione di stirpe semitica originaria, forse della penisola del Sinai che si era stanziata nella stretta fascia di territorio fra il monte Libano e il mare. Alle spalle avevano i grandi imperi mesopotamici, a nord la catena del Tauro e l'Impero Ittita, a Sud Ovest l'Egitto dei Faraoni: soltanto a sud avevano dei vicini non troppo pericolosi: le tribù d'Israele, a loro affini per stirpe e lingua anche se molto diverse per le loro credenze in un Dio unico, tremendo e invisibile.
Attorniati da vicini tanto potenti, stretti fra le montagne e il mare avevano fatto come i nostri liguri; si erano rivolti al mare diventando straordinari commercianti e navigatori.
Non avevano, come diremmo oggi, una coscienza nazionale, ma solo cittadina. Insomma erano gli altri a chiamarli "Fenici": loro si chiamavano semplicemente con i nomi delle loro città, Tirii, Sidonii, etc. Erano stati i Greci a chiamarli "Fenici", una parola che significa "rossi", forse dal colore della loro pelle abbronzata dal sole, forse dal colore delle loro vele, o forse dal colore del loro prodotto più venduto e ricercato: la porpora.
Erano stati i primi ad inventare l'alfabeto, nella città di Byblos, nel nord, probabilmente per ragioni pratiche: il sistema dì scrittura ideografico, fosse cuneiforme come in Mesopotamia, fosse geroglifico come in Egitto era troppo complesso e macchinoso. Chi voleva impararlo doveva dedicarsi solo a quello. Con il nuovo sistema invece bastava conoscere poco più di venti segni per scrivere qualunque parola. Tiro era una città su un'isola, come Hong Kong e Manhattan ma aveva una città vecchia in terraferma, Sidone invece era tutta in terraferma. Dai loro porti erano partite le navi che avevano sfidato le acque infide di tutti i mari allora conosciuti e si erano anche avventurate nell'Oceano: le cosiddette Colonne d'Ercole non li avevano certo fermati e l'Ercole dei Greci non era altro che l'interpretazione ellenica di un dio fenicio, Melkart, che come Ercole era rappresentato vestito con una pelle di leone. Era stata Tiro a fondare il maggior numero di colonie lungo le rotte che portavano a Gibilterra. Fra tutte la più grande e gloriosa era stata Cartagine (Qart Adasht, "Città nuova") che a sua volta aveva fondato tante altre città. Anche Cadice in Spagna era stata fondata dai coloni di Tiro e così pure Algeri e Orano. Fra Cartagine e Tiro c'era sempre stato un rapporto molto stretto: quando Annibale, costretto a fuggire dalla sua patria arrivò a Tiro vi fu accolto come un eroe. A quel tempo Tiro aveva già subito una distruzione rovinosa per mano di Alessandro. La città infatti, confidando nella sua posizione su un isolotto roccioso a sette-ottocento metri dalla costa aveva opposto un rifiuto alla richiesta del condottiero macedone di entrare in città per offrire un sacrificio al suo antenato Ercole (ossia Melkart). Se voleva, gli fu risposto, poteva sacrificare nel tempio che si trovava nella città vecchia in terraferma. Alessandro rispose: "Voi parlate così perché ritenete di essere un'isola." Un discorso strano, come se il fatto di essere o non essere un'isola fosse un fatto opinabile. In effetti era così, era opinabile. Alessandro fece radere al suolo la città vecchia e buttò in mare le macerie creando un molo su cui fece avanzare le macchine da guerra. Tutto attorno alle mura che strapiombavano sul mare, fece costruire pontoni galleggianti su cui piazzò balliste e catapulte che martellavano le mura giorno e notte, senza tregua. Alla fine Tiro cadde e subì una devastazione spaventosa ma pochi mesi dopo già fervevano i lavori di ricostruzione.
Oggi, come aveva voluto Alessandro, Tiro è una penisola, perché il moto delle onde ha creato un istmo sabbioso che collega la vecchia rupe alla terraferma, proprio come è successo in Italia al monte Circeo e a Orbetello.
Anche Sidone ha subito una forte attività di insabbiamento da parte del mare e questo spiega l'importanza degli scavi che tentano di rimettere in luce il suo antico porto. Da quei fondali potrebbero emergere testimonianze straordinarie e forse anche qualche sorpresa. Una volta Thor Heyerdahl, il famoso navigatore del "Kon Tìki", mi disse di aver visto proprio a Sidone, se ricordo bene, in una tomba fenicia di recente scavata, un oggetto in ceramica che secondo lui rappresentava inequivocabilmente una pannocchia di mais e non come dicevano gli archeologi, una pigna. I chicchi della pannocchia infatti sono disposti su file ortogonali mentre le scaglie della pigna son disposte a quinconce. Se verificata, una simile osservazione sarebbe rivoluzionaria, visto che il mais è una pianta americana. Ancora si discute sull'autenticità della fantomatica "stele di Paraiba" descritta da viaggiatori dell'ottocento e copiata con la sua iscrizione fenicia ma mai ritrovata e per questo assai sospetta. Quella stele sarebbe stata scritta da marinai di Tiro partiti da Ezion-geber nel mar Rosso e approdati in Brasile dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza. Una delle tante leggende fiorite sulla straordinaria abilità di questo popolo di navigatori.
domenica 6 dicembre 2009
venerdì 4 dicembre 2009
mercoledì 2 dicembre 2009
martedì 1 dicembre 2009
mercoledì 25 novembre 2009
Testa di un grande toro che formava la parte nella quale si versava il liquido in un vaso di terra cottoa ritrovato a Koumusa
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