Tiro e Sidone, due miti in porto
Valerio M. Manfredi
Il Messaggero, 10/1/2006
Un gruppo di geologi francesi ha finalmente localizzato i lcggendari scali. Proprio sotto le moderne città libanesi
Archeologi francesi avrebbero scoperto gli antichi porti di Tiro e di Sidone. Se confermata, si tratterebbe di una scoperta senz'altro eccezionale. Da quei porti sono salpatele navi che hanno solcato tutto il Mediterraneo ma forse anche l'Atlantico e addirittura l'Oceano indiano. Come sempre le notizie di questo genere diffuse da agenzie di stampa sono molto sommarie e sempre incomplete anche perché arrivano comunque prima della pubblicazione dei dati di scavo in sede scientifica. Si suppone comunque che gli archeologi francesi abbiano diffuso la notizia sulla base di dati obiettivi.
Non dobbiamo immaginare nulla di spettacolare, semplicemente strutture subacquee che consentono di delineare l'area dei porti e, forse le loro adiacenze.
Sia Tiro che Sidone erano città fenicie, ossia comunità fondate da una popolazione di stirpe semitica originaria, forse della penisola del Sinai che si era stanziata nella stretta fascia di territorio fra il monte Libano e il mare. Alle spalle avevano i grandi imperi mesopotamici, a nord la catena del Tauro e l'Impero Ittita, a Sud Ovest l'Egitto dei Faraoni: soltanto a sud avevano dei vicini non troppo pericolosi: le tribù d'Israele, a loro affini per stirpe e lingua anche se molto diverse per le loro credenze in un Dio unico, tremendo e invisibile.
Attorniati da vicini tanto potenti, stretti fra le montagne e il mare avevano fatto come i nostri liguri; si erano rivolti al mare diventando straordinari commercianti e navigatori.
Non avevano, come diremmo oggi, una coscienza nazionale, ma solo cittadina. Insomma erano gli altri a chiamarli "Fenici": loro si chiamavano semplicemente con i nomi delle loro città, Tirii, Sidonii, etc. Erano stati i Greci a chiamarli "Fenici", una parola che significa "rossi", forse dal colore della loro pelle abbronzata dal sole, forse dal colore delle loro vele, o forse dal colore del loro prodotto più venduto e ricercato: la porpora.
Erano stati i primi ad inventare l'alfabeto, nella città di Byblos, nel nord, probabilmente per ragioni pratiche: il sistema dì scrittura ideografico, fosse cuneiforme come in Mesopotamia, fosse geroglifico come in Egitto era troppo complesso e macchinoso. Chi voleva impararlo doveva dedicarsi solo a quello. Con il nuovo sistema invece bastava conoscere poco più di venti segni per scrivere qualunque parola. Tiro era una città su un'isola, come Hong Kong e Manhattan ma aveva una città vecchia in terraferma, Sidone invece era tutta in terraferma. Dai loro porti erano partite le navi che avevano sfidato le acque infide di tutti i mari allora conosciuti e si erano anche avventurate nell'Oceano: le cosiddette Colonne d'Ercole non li avevano certo fermati e l'Ercole dei Greci non era altro che l'interpretazione ellenica di un dio fenicio, Melkart, che come Ercole era rappresentato vestito con una pelle di leone. Era stata Tiro a fondare il maggior numero di colonie lungo le rotte che portavano a Gibilterra. Fra tutte la più grande e gloriosa era stata Cartagine (Qart Adasht, "Città nuova") che a sua volta aveva fondato tante altre città. Anche Cadice in Spagna era stata fondata dai coloni di Tiro e così pure Algeri e Orano. Fra Cartagine e Tiro c'era sempre stato un rapporto molto stretto: quando Annibale, costretto a fuggire dalla sua patria arrivò a Tiro vi fu accolto come un eroe. A quel tempo Tiro aveva già subito una distruzione rovinosa per mano di Alessandro. La città infatti, confidando nella sua posizione su un isolotto roccioso a sette-ottocento metri dalla costa aveva opposto un rifiuto alla richiesta del condottiero macedone di entrare in città per offrire un sacrificio al suo antenato Ercole (ossia Melkart). Se voleva, gli fu risposto, poteva sacrificare nel tempio che si trovava nella città vecchia in terraferma. Alessandro rispose: "Voi parlate così perché ritenete di essere un'isola." Un discorso strano, come se il fatto di essere o non essere un'isola fosse un fatto opinabile. In effetti era così, era opinabile. Alessandro fece radere al suolo la città vecchia e buttò in mare le macerie creando un molo su cui fece avanzare le macchine da guerra. Tutto attorno alle mura che strapiombavano sul mare, fece costruire pontoni galleggianti su cui piazzò balliste e catapulte che martellavano le mura giorno e notte, senza tregua. Alla fine Tiro cadde e subì una devastazione spaventosa ma pochi mesi dopo già fervevano i lavori di ricostruzione.
Oggi, come aveva voluto Alessandro, Tiro è una penisola, perché il moto delle onde ha creato un istmo sabbioso che collega la vecchia rupe alla terraferma, proprio come è successo in Italia al monte Circeo e a Orbetello.
Anche Sidone ha subito una forte attività di insabbiamento da parte del mare e questo spiega l'importanza degli scavi che tentano di rimettere in luce il suo antico porto. Da quei fondali potrebbero emergere testimonianze straordinarie e forse anche qualche sorpresa. Una volta Thor Heyerdahl, il famoso navigatore del "Kon Tìki", mi disse di aver visto proprio a Sidone, se ricordo bene, in una tomba fenicia di recente scavata, un oggetto in ceramica che secondo lui rappresentava inequivocabilmente una pannocchia di mais e non come dicevano gli archeologi, una pigna. I chicchi della pannocchia infatti sono disposti su file ortogonali mentre le scaglie della pigna son disposte a quinconce. Se verificata, una simile osservazione sarebbe rivoluzionaria, visto che il mais è una pianta americana. Ancora si discute sull'autenticità della fantomatica "stele di Paraiba" descritta da viaggiatori dell'ottocento e copiata con la sua iscrizione fenicia ma mai ritrovata e per questo assai sospetta. Quella stele sarebbe stata scritta da marinai di Tiro partiti da Ezion-geber nel mar Rosso e approdati in Brasile dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza. Una delle tante leggende fiorite sulla straordinaria abilità di questo popolo di navigatori.
Valerio M. Manfredi
Il Messaggero, 10/1/2006
Un gruppo di geologi francesi ha finalmente localizzato i lcggendari scali. Proprio sotto le moderne città libanesi
Archeologi francesi avrebbero scoperto gli antichi porti di Tiro e di Sidone. Se confermata, si tratterebbe di una scoperta senz'altro eccezionale. Da quei porti sono salpatele navi che hanno solcato tutto il Mediterraneo ma forse anche l'Atlantico e addirittura l'Oceano indiano. Come sempre le notizie di questo genere diffuse da agenzie di stampa sono molto sommarie e sempre incomplete anche perché arrivano comunque prima della pubblicazione dei dati di scavo in sede scientifica. Si suppone comunque che gli archeologi francesi abbiano diffuso la notizia sulla base di dati obiettivi.
Non dobbiamo immaginare nulla di spettacolare, semplicemente strutture subacquee che consentono di delineare l'area dei porti e, forse le loro adiacenze.
Sia Tiro che Sidone erano città fenicie, ossia comunità fondate da una popolazione di stirpe semitica originaria, forse della penisola del Sinai che si era stanziata nella stretta fascia di territorio fra il monte Libano e il mare. Alle spalle avevano i grandi imperi mesopotamici, a nord la catena del Tauro e l'Impero Ittita, a Sud Ovest l'Egitto dei Faraoni: soltanto a sud avevano dei vicini non troppo pericolosi: le tribù d'Israele, a loro affini per stirpe e lingua anche se molto diverse per le loro credenze in un Dio unico, tremendo e invisibile.
Attorniati da vicini tanto potenti, stretti fra le montagne e il mare avevano fatto come i nostri liguri; si erano rivolti al mare diventando straordinari commercianti e navigatori.
Non avevano, come diremmo oggi, una coscienza nazionale, ma solo cittadina. Insomma erano gli altri a chiamarli "Fenici": loro si chiamavano semplicemente con i nomi delle loro città, Tirii, Sidonii, etc. Erano stati i Greci a chiamarli "Fenici", una parola che significa "rossi", forse dal colore della loro pelle abbronzata dal sole, forse dal colore delle loro vele, o forse dal colore del loro prodotto più venduto e ricercato: la porpora.
Erano stati i primi ad inventare l'alfabeto, nella città di Byblos, nel nord, probabilmente per ragioni pratiche: il sistema dì scrittura ideografico, fosse cuneiforme come in Mesopotamia, fosse geroglifico come in Egitto era troppo complesso e macchinoso. Chi voleva impararlo doveva dedicarsi solo a quello. Con il nuovo sistema invece bastava conoscere poco più di venti segni per scrivere qualunque parola. Tiro era una città su un'isola, come Hong Kong e Manhattan ma aveva una città vecchia in terraferma, Sidone invece era tutta in terraferma. Dai loro porti erano partite le navi che avevano sfidato le acque infide di tutti i mari allora conosciuti e si erano anche avventurate nell'Oceano: le cosiddette Colonne d'Ercole non li avevano certo fermati e l'Ercole dei Greci non era altro che l'interpretazione ellenica di un dio fenicio, Melkart, che come Ercole era rappresentato vestito con una pelle di leone. Era stata Tiro a fondare il maggior numero di colonie lungo le rotte che portavano a Gibilterra. Fra tutte la più grande e gloriosa era stata Cartagine (Qart Adasht, "Città nuova") che a sua volta aveva fondato tante altre città. Anche Cadice in Spagna era stata fondata dai coloni di Tiro e così pure Algeri e Orano. Fra Cartagine e Tiro c'era sempre stato un rapporto molto stretto: quando Annibale, costretto a fuggire dalla sua patria arrivò a Tiro vi fu accolto come un eroe. A quel tempo Tiro aveva già subito una distruzione rovinosa per mano di Alessandro. La città infatti, confidando nella sua posizione su un isolotto roccioso a sette-ottocento metri dalla costa aveva opposto un rifiuto alla richiesta del condottiero macedone di entrare in città per offrire un sacrificio al suo antenato Ercole (ossia Melkart). Se voleva, gli fu risposto, poteva sacrificare nel tempio che si trovava nella città vecchia in terraferma. Alessandro rispose: "Voi parlate così perché ritenete di essere un'isola." Un discorso strano, come se il fatto di essere o non essere un'isola fosse un fatto opinabile. In effetti era così, era opinabile. Alessandro fece radere al suolo la città vecchia e buttò in mare le macerie creando un molo su cui fece avanzare le macchine da guerra. Tutto attorno alle mura che strapiombavano sul mare, fece costruire pontoni galleggianti su cui piazzò balliste e catapulte che martellavano le mura giorno e notte, senza tregua. Alla fine Tiro cadde e subì una devastazione spaventosa ma pochi mesi dopo già fervevano i lavori di ricostruzione.
Oggi, come aveva voluto Alessandro, Tiro è una penisola, perché il moto delle onde ha creato un istmo sabbioso che collega la vecchia rupe alla terraferma, proprio come è successo in Italia al monte Circeo e a Orbetello.
Anche Sidone ha subito una forte attività di insabbiamento da parte del mare e questo spiega l'importanza degli scavi che tentano di rimettere in luce il suo antico porto. Da quei fondali potrebbero emergere testimonianze straordinarie e forse anche qualche sorpresa. Una volta Thor Heyerdahl, il famoso navigatore del "Kon Tìki", mi disse di aver visto proprio a Sidone, se ricordo bene, in una tomba fenicia di recente scavata, un oggetto in ceramica che secondo lui rappresentava inequivocabilmente una pannocchia di mais e non come dicevano gli archeologi, una pigna. I chicchi della pannocchia infatti sono disposti su file ortogonali mentre le scaglie della pigna son disposte a quinconce. Se verificata, una simile osservazione sarebbe rivoluzionaria, visto che il mais è una pianta americana. Ancora si discute sull'autenticità della fantomatica "stele di Paraiba" descritta da viaggiatori dell'ottocento e copiata con la sua iscrizione fenicia ma mai ritrovata e per questo assai sospetta. Quella stele sarebbe stata scritta da marinai di Tiro partiti da Ezion-geber nel mar Rosso e approdati in Brasile dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza. Una delle tante leggende fiorite sulla straordinaria abilità di questo popolo di navigatori.